Un dopoguerra partigiano
“Una jeep americana ci passò accanto. I poliziotti ci urlarono qualcosa che non capimmo. Scesero con il bastone alzato, ci fecero cenno di toglierci i fazzoletti rossi”: scrive Mario Spinella, resistente toscano, fissando in una immagine la sorda angoscia della smobilitazione partigiana, che rende “scialbo e cupo contro il verde degli alberi anche il colore delle nostre bandiere per tanti anni nascoste nelle cantine e nei sottoscala” ( cit. Mario Spinella “Memorie della Resistenza”)
Renato no. Né scrive, nè racconta. Al tristo dopoguerra italiano oppone il suo silenzio. Lui, in cerca di lavoro, tornato da partigiano - 87° brigata garibaldina Crespi, Terza Divisione Aliotta - si arruola in polizia. Resta due anni. E sono anche troppi: ampiamente sufficienti per capire che non è posto per lui. Per i fascisti e i repubblichini invece si. Perché nei ranghi della polizia, vicini al cuore dello stato repubblicano, essi sono stati ampiamente reintegrati. Renato non li ha contati, i fascisti. Ma sono tanti.
Renato Codara a testa scoperta primo maggio 1945 |
E allora se ne va. Prende
la bicicletta; torna in fabbrica. Qui, almeno, è rimasto “Codaro”, il partigiano
che, appena arrivato con i compagni da Pavia liberata nelle scuole di piazzale
Romagna a Milano, viene scelto tra i primi dodici per la missione di Dongo; e
da Dongo, caricati i corpi dei fucilati sul camion, con il comandante Valerio,
tornerà a Milano nella notte tra il 28 e il 29 aprile. Destinazione piazzale Loreto.
In esatto contrappunto alla strage fascista del 10 agosto 1944, che lascerà a
lungo esposti i corpi degli antifascisti ammazzati.
Renato non ha dimenticato
niente. Nè i nomi né le facce dei gerarchi davanti al muretto del lungolago di Dongo,
che, trascorsi i tre minuti concessi per i sacramenti religiosi, vengono
allineati faccia al muro. Non è una sparatoria. E’ una azione di guerra. E’ una
esecuzione, “la cui legalità discende dal complesso sistema istituzionale
che resse l’ultima fase della Resistenza” (cit. Claudio Pavone, Una guerra civile)
e reca il sigillo del CLNAI che, già dal 12 aprile, ordinandone la cattura,
aveva denunciato Mussolini e i suoi come “traditori della patria e criminali
di guerra”.
Ogni partigiano sa a chi
debba sparare. Renato deve sparare a Nicola Bombacci; e Bombacci, il traditore
della classe operaia e del comunismo, gli si rivolge spavaldo, raccomandandogli
di sparare bene, diritto al cuore. Renato ha ventitre anni; la sua lingua è il
dialetto di Belgioioso dove è nato. In dialetto, l’undici marzo ’44, prendendo
la strada partigiana, ha salutato suo padre. E in dialetto risponde a Bombacci
“c’al sa preocupa no” (non si preoccupi). Poi spara.
Forse il perdono appartiene a dio; non agli uomini che fanno la storia e, se riescono, fanno giustizia, Renato pigia sui pedali. E’ mattina presto. Va al lavoro in fabbrica, e vuole essere puntuale. Da comunista, Renato sa che i comunisti devono essere inattaccabili, nelle cose piccole e in quelle grandi. Per non offrire il fianco al padrone, certo; ma anche perché ogni comunista “è” il Partito nella sua intierezza, e il Partito, in ogni occasione, attraverso i propri militanti, deve mostrare il rigore e la serietà che, Renato ne è certo, lo porteranno alla guida del Paese. Renato pigia sui pedali. Non ha macchina e non prenderà mai la patente. Corre veloce. La sua bicicletta si mangia la strada Belgioioso-Copiano fabbrica IMMI, come il camion si è mangiato le curve dal lago di Como a Milano, e lui stava sul camion con il mitra imbracciato. Entra in fabbrica. Lavora concentrato, è un maestro di precisione, di volta in volta attrezzista, finitore, montatore; un operaio che risolve i problemi della produzione. In quella meccanica, nelle lime e nei raschietti, c’è il peso dello sfruttamento, ma c’è anche l’orgoglio senza prezzo del proprio mestiere. In silenzio, Renato tiene in bocca il mozzicone di sigaretta. Parla per lui la sua faccia, che invecchia, ma non cambia da quella del ragazzo in missione a Dongo.
Renato pedala. Torna a
casa da sua moglie Antonietta, da suo figlio Graziano, che è bravo a scuola. Anche
in questo, Renato è un comunista. Far studiare i figli è un loro antico
desiderio. Non perché i figli tradiscano la classe dei padri, ma perché abbiano
più strumenti, e spesso gli strumenti vengono dal sapere, per dar filo da
torcere al padrone.
Renato Codara, con gli occhiali
Accosta al marciapiedi.
Scende dalla bici, Si scosta dal viso il ciuffo di capelli, spessi, neri da
ragazzo di strada, che ingrigiscono, ma ancora gli ballano in fronte quando
all’osteria gioca al Mercante in Fiera; quando alla festa dell’Unità fischietta
il ritornello garibaldino “Non c'è tenente, né capitano, né colonnello né
generale questa è la marcia, dell'ideal”; quando soppesa una boccia, di
quelle sue, le “bocce rosse”, marca Perfetta, fabbricate a Ferrara, se no non
c’è partita.
Renato Codara, uomo
libero e schivo, che amava la lirica, e aveva nel cuore L’ Internazionale, è
morto nel giorno che gli era più caro, quello della libertà conquistata: il 25
aprile. Anno 1999. Sulla sua tomba è incisa una parola: partigiano.
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