L’uomo che muore, laggiù al fondo della tromba delle scale della sua casa di Corso Re Umberto 75, a Torino, l’11 aprile 1987 ha nome Primo Levi e un numero, 174517, tatuato sull’avambraccio sinistro. È un chimico e uno scrittore. Quarantadue anni prima, dopo una odissea di alcuni mesi, larga parte dei quali penosamente percorsi a piedi sulle devastate strade d’Europa, era tornato vivo dal lager di Auschwitz. Vi era stato deportato nel febbraio ’44, in quanto “non uomo” infetto e inferiore, perché di “razza” ebraica, come andavano recitando le norme dello stato fascista.
Nei primi mesi dopo la Liberazione del campo da parte delle truppe sovietiche, nella sua casa di Torino, di getto Levi aveva scritto il suo testo più noto, “Se questo è un uomo” – testimonianza radicalmente asciutta, delle modalità di vita, sonno, veglia, lavoro, relazioni, morte nel lager. Tanto forte agì l’imbarazzato processo di collettiva rimozione dell’universo concentrazionario, che il libro, rifiutato da alcuni grandi editori, fra cui Einaudi, venne stampato, in prima edizione (1947), da una piccola casa editrice torinese, la De Silva, diretta da Franco Antonicelli.
Ma Levi non è stato soltanto il “testimone” dell’inferno.
Nella potente macchina ideologica dello Stato, in ciascuna delle sue articolazioni e nel sonno della coscienza dei più, intesa a costruire nell’ebreo il nemico razziale, che in quanto subumano merita spersonalizzazione, deportazione, annientamento, Levi ha individuato una sorta di paradigma universale del baratro sul quale con insensata leggerezza spesso camminiamo. E se il primo libro di Levi, “Se questo è un uomo”, rende testimonianza di un male particolare, l’ultimo, “I sommersi e i salvati” (1986), prende dolorosamente atto che il male è diffuso, si è radicato pericolosamente ovunque: “pochi Paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali”. (Primo Levi “I sommersi e i salvati”). La testimonianza di Primo Levi, dunque, non semplicemente ci vincola al dovere civile della memoria. Ma soprattutto ci chiama a fare nostra la consapevolezza quando “in tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell’uomo e l’uguaglianza tra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario – ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi”. (Primo Levi appendice a “Se questo è un uomo”, 1976). Scriviamo questo, oggi, mentre un marcato immaginario collettivo, impregnato di liquida paura, definisce “invasori” donne e uomini penosamente arrancanti sul valico italo-francese. Occorre ricordare, certo. Ma occorre anche sapere che “se l’orrore nazista viene considerato un destino tedesco, non un destino collettivo” (Marguerite Duras, “Il dolore”) i morti in lager saranno ridotti a vittime di un conflitto locale, e di uno sciagurato accidente della storia. “Una sola risposta per tale crimine: trasformarlo nel crimine di tutti. Condividerlo. Come si condivide l’idea di uguaglianza e di fraternità” (Marguerite Duras, “Il dolore”). E condividere significa sapere che nessuno di noi è esente dal germe venefico della barbarie verso altri uomini abitanti del pianeta Terra.
Questo pezzo reca la firma di Annalisa Alessio e di Mario Albrigoni. aprile 2019.
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