sabato 9 gennaio 2021

COMUNISTI, UNA STORIA D'AMORE

Mio padre chiamava il Partito Comunista Italiano “il vecchio bisonte”. Ad indicarne la lentezza ma anche la possente stabilità che, ancorata nel tempo eroico della rivoluzione d’ottobre, dispiegando sé stessa, prima o dopo, avrebbe conquistato una società senza classi; e, sottraendo ai pochi detentori la proprietà privata dei mezzi di produzione, avrebbe liberato gli uomini dallo sfruttamento e dalla alienazione. Io amavo mio padre; senza mai, nemmeno una volta, avendone avuto timore, né tantomeno rispettando in lui l’autorità. Perché di autorità patriarcale, mio padre - uomo limpido e lieto - era completamente e fortunatamente privo. Il “vecchio bisonte comunista” amato da mio padre era l’esatto opposto del Minotauro divorante della leggenda che avrei studiato anni dopo. Il vecchio bisonte non si mangiava né giovinette né uomini. Ma regalava alla loro vita una luce d’orgoglio che li rendeva più forti.


Alcuni degli uomini compagni del vecchio bisonte erano amici di mio padre.Uno di essi aveva un numero imprecisato di figli e abitava a Milano. Noi, però, andavamo a trovarlo nella sua casa piemontese di Barge. Aveva nome Ludovico Geymonat; ma per mio padre era “il Ludovico”. Non lo sapevo, ma il cortile nel quale “la Virginia”, moglie del Ludovico, ai suoi figli e a me portava merenda era quello stesso nel quale -10 settembre ’43 - i comunisti clandestini sotto il fascismo erano arrivati da Torino per organizzare la Resistenza in montagna. Uno degli altri compagni del vecchio bisonte amici di mio padre abitò per un tratto di vita in una modesta villetta vicino al nostro condominio di via Bona di Savoia. Aveva nome Renato Tisato. Quando mio padre me lo fece conoscere,  avevo forse quattro anni, e da allora una nuova parola entrò nel mio vocabolario : partigiano. Mezzo secolo dopo, scoprii che Tisato salvò il suo nome e il suo onore facendosi, da tenente del regio esercito, partigiano gappista, nella città dove era nato, Verona. Forse, se, in controluce, avessi guardato questi uomini che potevano essermi padri o nonni, li avrei scoperti costruiti su una ossatura interiore di luminoso acciaio, resistente ai venti e alle maree della storia.  

Quando mio padre si convinse di essere meno povero, avendo del denaro una personalissima idea – che ne eravamo sempre a corto e che i soldi andavano usati unicamente per comperare libri o al massimo poltrone dove leggerli, traslocammo in una zona più centrale della città. Era il 1963. Aprivano i magazzini Upim e furoreggiava la pubblicità di Carosello. Non avendo comprato la TV, strumento, ad avviso di mio padre da oscurare rapidamente prima che i suoi danni ottundessero i nostri cervelli, ma sentendo in qualche maniera di dovermi risarcire della mancata visione di carosello, all’ora presunta in cui esso andava in onda, mio padre mi conduceva in cortile a giocare ai viet-cong. Il nostro obiettivo erano le targhe in lamiera apposto ai confini del prato condominiale recanti la scritta “Proprietà privata”. Il generale Giap combatteva per la libertà contro l’imperialismo amerikano, e mio padre ed io, in emulazione, cercavamo di abbattere le borghesi targhe condominali. Certo volte, mio padre riusciva a piegarne e a stortarne alcune. Altre volte no. Ma non fummo mai scoperti. 

Invece il Ministro Gui scoprì che mio padre amava il vecchio bisonte e così non lo ammise ad un importante concorso. Mio nonno materno sgridò con furore mia madre perché aveva sposato un comunista. Io ero arrabbiata con il ministro Gui e con i suoi democristiani, nemici del vecchio bisonte. Poi, non so come, ci fu un altro concorso; mio padre questa volta fu ammesso e vinse. Vinse una cattedra in università e in casa tornò ad esserci pace. Leggeva L’Espresso che usciva in formato gigante, fumava Muratti e raccontava che il Medio Evo era una stagione di grandi e bellissime ribellioni di poveri e eretici, come i suoi antenati valdesi. Io amavo le ribellioni, amavo i valdesi e amavo mio padre.

La sera, quando mia madre spariva come una volpe nella sua tana, mio padre mi dava il permesso di “fare una leggiutina” a letto. All’ora fatale delle 21.30 veniva a spegnere la luce e io dovevo posare sul comodino il libro, quale che fosse, che liberamente avevo scelto tra gli scaffali di casa. Leggevo Le mie prigioni di Silvio Pellico, leggevo i Partigiani del Ciar, leggevo Le Cinque giornate di Milano, leggevo Il gran sole di Hiroschima, leggevo Taras Bulba e il Diario di Anna Frank. In questa casuale girandola, incappai in La rivoluzione bolscevica di Carr che lessi d’un fiato, per capirci poco o nulla, e in Uomini e no di Vittorini che capii invece benissimo ed adorai alla follia, innamorando della glaciale freddezza del partigiano dal cuore spezzato d’amore, il gappista Enne Due.

La nostra radio poggiava sul marmo della finestra di cucina affacciata sulla nebbia  del dicembre 1969. La sera in cui arrivò la notizia della bomba a piazza Fontana, mio padre tornò da Milano più tardi del solito. Da allora e per sempre, smettemmo di giocare ai viet-cong. Mio padre ed io eravamo diventati di colpo più vecchi e più tristi. Quell’inverno mi ripetè più volte “aveva due bambine della stessa tua età”. Era morto, schiantato dalla finestra della Questura, l’anarchico Giuseppe Pinelli, innocente. Mio padre pensava che il vecchio partito bisonte dovesse alzarsi sulle zampe, scuotersi tutto, rizzare il pelo e mostrare gli artigli. La stessa cosa io pensavo con lui, trapassando i suoi pensieri dai miei come l’acqua ghiacciata del torrente Pellice nella valle luogo delle nostre vacanze.

In Val Pellice era vissuto il mio bisnonno Francesco, detto Cichin, che, sugli antichi sentieri del contrabbando, aveva guidato alcuni antifascisti in fuga dall’Italia di Mussolini verso la Francia del socialista Leon Blum. Forse per questo, ebbi in regalo “La strana disfatta” del professore antifascista francese Marc Bloch, che dai nazisti era stato fucilato. Non lo capii molto, quel libro, ma le mulattiere dall’Italia alla Francia le avevo memorizzate assai bene. Nonostante la mia lamentosa pigrizia, ero stata costretta a percorrerle già dal ’64, sotto la guida di mio padre, che quell’estate indossò l’unica camicia rossa della sua vita,  in vecchia flanellina. In quell’anno, infatti mio padre sosteneva che un nuovo fascismo poteva scatenarsi con la complicità dei servizi segreti e il sentiero per la Francia bisognava conoscerlo, fosse stato necessario andarsene dall’Italia. Per rendere più chiaro il concetto ebbi l’impegno di leggere la Peste di Camus, a tal punto figgendomelo in mente da mandarne a memoria interi passaggi.

Crescevo. E il vecchio bisonte regalò un amico anche a me. Si chiamava Bussi, era custode della federazione comunista di viale Libertà, sul mio tragitto tra la casa e la scuola. Così, frequentemente, sostavo alla vicina vetrina della libreria L’incontro. Bussi uscì una volta dalla sede comunista e mi chiese “bambina ti interessa la stampa comunista”. Io ne fui imbarazzata, perché ero timida imbranata e miope. Presi coraggio e comprai un manifesto con l’immagine di Lenin. Rinunciando a chiedere aiuto a mio padre, sapendolo incapace di qualsivoglia attività manuale, me lo appesi da sola con la carta gommata sopra la scrivania dove studiavo, forse per gli esami di III media. Mio padre diceva che sui libri bisogna farsi il culo piatto come Molotov. Non so perché citasse proprio quel generale sovietico, ma ero certa che studiando facevo un lavoro utile per il vecchio bisonte. Per entrare nelle sue fila infatti bisognava avere il cervello lucido, la coscienza a posto, avere superato “l’estremismo malattia infantile del comunismo”, avere letto almeno “Stato e rivoluzione”, e diffidare dei LumpenproletariatE non meno di questi, pure poveri e sfruttati ma privi di coscienza di classe, diffidare e tenere alla larga opportunisti carrieristi voltagabbana, buoni borghesi, bottegai grassi, notabili arricchiti e ipocriti.

Forse nelle case dei lumpen no, ma di sicuro in quelle borghesi si beveva acqua minerale gassata. Marca Pracastello che, secondo mio padre e me, era la marca preferita dei ricchi, poiché vedevamo come questa bottiglia spiccasse al centro del desco del suocero di mio padre, mio nonno ingegnere che votava il liberale Malagodi, il cui unico pregio, secondo mio padre, era essere laico e non clericale. Il punto di vista della fede religiosa, se poggiato sulla politica, era secondo mio padre, negativo e fuorviante, e abitava spesso nei cervelli di quelli che chiamava “i confusionari mentali”, e si arrabbiava quando ne scopriva qualcuno tra i suoi studenti del movimento studentesco di Milano. Vietata la Pracastello, mio padre, quale suo unico contributo alla gestione domestica, preparava invece l’acqua “pizzighina”, versando lattee bustine effervescenti nella bottiglia di acqua del rubinetto. Vietata anche la coca cola, perché “amerikana”; gli americani erano nemici del vecchio bisonte. Essi ci avevano aiutato a combattere il fascismo; ma poi ci erano rimasti in casa per impedire che i comunisti facessero la rivoluzione; e si erano anzi comprati l’intero nostro Paese con i dollari del Piano Maschall, instupidendo tante persone, inducendole a credere necessari bisogni superflui, utili invece soltanto ad ingrassare il capitale.

Mio padre mi spiegava molte cose sull’accumulazione originaria, sulla differenza tra struttura e sovra struttura, nella mia testa la prima pesante come piombo l’altra leggera come una tossica nube posata sugli uomini-merce, sulla violenta coercizione che, strappando i contadini dalle terre del demanio dei cui frutti parcamente e penosamente pure vivevano, li aveva trasformati in uomini-macchine sfruttati nelle nuove città dei padroni borghesi, lentamente resisi dominanti sui vecchi feudatari. Mio padre forniva queste spiegazioni durante i viaggi da Pavia alla Val Pellice. Non sempre mi erano chiare, perché frequentemente interrotte dagli scoppi canori che mio padre intonava, indifferente a curve e sorpassi. E io, come lui stonatissima, lo seguivo nel canto, imparando assai meglio delle teorie marxiste, le parole di Bella Ciao, dell’Internazionale e Bandiera Rossa, dell’anarchica Addio Lugano Bella e della sovversiva Gorizia tu sei maledetta, ad avviso di mio padre unico modo “degno” di ricordare, condannandola, la grande guerra; e con essa suo padre, mio nonno, fante reparto guastatori, cacciato a calci dalla trincea per assaltare, unica arma vecchie cesoie non affilate, i reticolati nemici. L’anno in cui mio padre collaborò al Circolo Labriola, io piansi su Addio alle armi di Heminguay,  su Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale e ancor più sulla Via del Ritorno di Remarque. E ad esaurimento ascoltai sul giradischi – nuovo emozionante acquisto – le canzoni sovietiche, in cui il grande bisonte russo metteva l’anima e il peso dei suoi 20 milioni di morti contro il nazismo, e le poesie lette da Arnaldo Foa incise in 45 giri.

“Ti lascio l’arma con la canna arroventata. Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno”. Molti anni dopo, scopri che erano i versi di Testamento, autore il poeta greco Athanasulis. Mio padre amava il vecchio bisonte da lontano, con passione e rispetto, senza mai tesserarsi. Non avendo preso parte alla lotta partigiana, mio padre non si sentì mai degno di entrare organicamente nelle file del vecchio bisonte. Fu, questa, credo, la più grande vergogna della sua vita.  Disertò, sì, ma non prese le armi forse perché aveva paura, forse perché era imbranato, forse perché portava spessi occhiali da miope. Forse perché non sapeva ancora di essere antifascista e comunista. Mio padre guardava al vecchio bisonte come altri guardano alle stelle, e gli rimase accanto sempre, anche dopo i fatti di Ungheria, prima che io nascessi, e di Cecoslovacchia, ritenendo che oltre la cortina di ferro ci fosse solo il divoramento del capitale e il disordine amorale del consumismo. Anche le spiagge balneari degli anni del benessere erano per mio padre luoghi da cui stare lontani, disprezzandone l’ozio consumato sulle sdraio.

Forse era impegnato e nell’estate nel ’73 non andammo in Val Pellice. Io trascorsi agosto e settembre al mare. Su una panchina del lungomare Kennedy di Arenzano l’11 settembre ’73 h. 20.30 appresi del colpo di Stato in Cile che, complice l’amerika, aveva ammazzato il governo socialista, e con il governo socialista, il suo presidente Salvador Allede. Il mese successivo mi iscrissi al vecchio partito bisonte. La prima conseguenza fu che mio padre si sentì in dovere di accompagnarmi in macchina una volta la settimana alle riunioni della sede comunista di via Scarpa. Mi portava alle h. 21 e mi passava a riprendere alle h 23, che la riunione fosse o non fosse finita, dovendo io andare a letto, per potere studiare bene il giorno dopo. Per mio padre, lo studio era il mio primo dovere, una legge da cui rifuggii solo una volta bigiando scuola per partecipare ai funerali dei morti ammazzati in piazza della loggia a Brescia nel 1974. Mio padre non entrò mai nella sede di via Scarpa. Mi aspettava seduto in macchina con un colbacco in testa, e la sigaretta in mano. Uscivo da queste riunioni con un vago senso di dolore, sentendomi del tutto inadeguata a prendere la parola, e una grande stanchezza per la fatica di dover ricollocare le grandi parole della mia infanzia dentro quelle, più modestamente e concretamente, in quelle sedi pronunciate. Tuttavia non ne mancai una, di queste riunioni, vivendo ciascuna come un felice dovere e tappa di una inarrestabile marcia che, prima o dopo, conquistate le istituzioni, avrebbe portato il vecchio bisonte alla guida dello Stato. In quel primo anno di militanza nel vecchio partito bisonte, soffrii il freddo di sezioni sempre gelide e il fastidio delle luci al neon. Non imparai l’arte del parlare in pubblico e neppure quella di fingermi attenta quando non lo ero.

Imparai però che la parola compagno è più grande e più forte della parola “giovane” e della parola “vecchio”, e appresi l’arte del volantinaggio, con immensa felicità sperimentandola davanti a scuola, e in piazza dove il vecchio bisonte nel dicembre ’73 aveva organizzato una raccolta fondi per i figli dei compagni cileni massacrati nello stadio di Santiago. Nell’estate successiva, fui prescelta con altri compagni per frequentare un corso di formazione sulla Via italiana al socialismo, a Faggeto Lario, Como. La mattina di luglio in cui partii per la scuola di partito, attraversando il cortile dove con mio padre giocavo ai viet-cong, mi girai. Mio padre era affacciato al balcone. Non mi salutò con il pugno chiuso. Quel simbolo e quel saluto era già da tempo quietamente trapassato dal suo cuore al mio, e là stava racchiuso.

  

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