giovedì 3 dicembre 2020

UNA STORIA PRIVATA

 

Dopo, le due persone con cui sei arrivato se ne sono andate. Ho messo nel cassetto della credenza i tuoi pochi documenti. Ero molto stanca e mi sono sdraiata sul divano. Tu sei rimasto in piedi e hai preso a percorrere il perimetro della stanza che è soggiorno e cucina. Ho pronunciato il nome che mi hanno detto essere il tuo. Non è servito. Come un penitente in angoscia, hai continuato a camminare; e, ogni volta, come al confine di un territorio proibito, ti sei arrestato alla soglia della zona notte della casa. Ho spento il cellulare; ho chiuso gli occhi e ho preso a dirti piccole fiabe inventate di momento in momento. Forse ti ho raccontato anche chi sono, e la ragione per cui, tempo fa, ho scelto di vivere solitariamente, e lontano dal centro della città. Adesso non ricordo bene. Questo diario, infatti, è costruito a posteriori, a distanza di anni da ciò che in esso è narrato. Perciò qualunque cosa ti abbia detto di me, in quel pomeriggio assolato, non ha più, ora, nessuna importanza.


Quando ho riaperto gli occhi, tu dormivi schiantato. Sono uscita a piedi nudi sotto il portico, e ho sentito le mattonelle bruciare nella calura. Stasera dovrò bagnare - ho pensato.  Sono rientrata nella stanza, ho accostato le imposte; e sono rimasta a guardare il tuo largo torace tremare nel sonno.

16 giugno Verso sera siamo andati al grande prato del parco vicino casa. Non c’era nessuno. Devono essere tutti a cena – ho pensato. C’era ancora luce.

Sotto il mio passo e il tuo, ho sentito la terra ruotare fortissimo sul suo asse inclinato. Alla fontanella hai bevuto come avessi sete da secoli. Ti ho sorriso. Con gli occhi bassi, con un movimento pudico, ti sei accostato di una spanna più vicino al mio fianco. Così, quasi appoggiati l’uno all’altra, abbiamo accelerato il passo, come  due vecchi che, rincasando, temano di essere ghermiti alle spalle dalla grande ombra della sera.

19 giugno Ci siamo seduti ad un tavolino all’aperto di un bar dove gli autobus fanno capolinea verso il centro città. Lo stridore di uno dei mezzi ti ha spaventato e hai urtato, travolgendolo, il tavolino. Il liquido del mio bicchiere in frantumi è colato a terra. Né il padrone del bar né i clienti hanno commentato in alcun modo. Ho capito però che non eri gradito e ce ne siamo andati quasi subito. Avrei dovuto dire che eri straniero, gravato dal viaggio, ignaro delle parole di cui si compone la nostra lingua. Invece ho taciuto. In fondo, desideravo solo dismettere la lingua che, a quanto dicono, farebbe di noi una comunità.

24 giugno Stasera siamo stati in giardino. Ho bagnato il prato, gli alberi e i fiori nei vasi. Poi ho posato la mano fresca d’acqua sulla tua schiena e ho sentito i nodi della tua grande ossatura. Muovendo piano la mano, ti ho raccontato la fiaba di un leone cieco. Sono andata a letto. Dalla balera sulla strada provinciale arrivava una canzone che avevo amato. Forse per questo mi sono addormentata nella certezza che stanotte i tuoi sogni incontreranno i miei. Al mattino, infilandomi la stessa camicia di ieri, mi è parso che i tuoi occhi fossero più chiari.

2 luglio Abbiamo preso l’abitudine di andare ogni giorno al grande prato. Porto con me il cellulare per essere rintracciabile dall’ufficio per cui lavoro. A volte troviamo una amica e le sono grata di camminare con noi. A volte, troviamo persone in corsa veloce, forse in fuga dall’assedio dei loro demoni privati. Qualche volta, tu mi precedi, accelerando il tuo andare: allora una lunga vibrazione, simile ad un antico rimpianto, scuote il tuo grande corpo affaticato dal caldo. Qualche volta, intreccio la mano alla tua nuca, quasi a proteggere entrambi dall’odore venefico di cui è pregna l’aria umida dell’estate.

10 luglio Ho preso la scala e ho raccolto i fichi primaticci. Il tuo sguardo aiuta i miei piedi a stare saldi sui gradini. Ho posato una cesta di fichi sul tavolo; ho lavato la tazza del caffè, controllato le provviste e  pulito il ripiano della cucina. Poi mi sono seduta e ho accarezzato il tuo profilo, il collo, la nuca, la gola, le scapole, i fianchi, la schiena. Ho cercato la tua pancia e ho accarezzato anche quella. Sei rimasto immobile come un soldato durante un giuramento di fedeltà. Ti stavo chiedendo se eri felice.

14 luglio Sotto il portico, la luce della casa di fronte illumina il bucato steso e la catinella dei panni. Ti ho circondato con un braccio e ti ho dato un bacio sulla testa. Ti sei appoggiato tutto al mio corpo e la tua lingua ha cercato la mia guancia. Mi sono alzata di scatto; mi sono chiusa in bagno e ho pianto per un po’. Forse è successo perché non sono abituata ad essere felice. In ogni caso, non volevo spaventarti con il rumore acuto dei singhiozzi di notte. Quando ho riaperto la porta, eri lì fuori, in piedi, rigido, lo sguardo inchiodato a terra come un soldato che non osa porre domande e teme di essere tradito.

8 agosto Sono andata e tornata dal centro in autobus. Fa troppo caldo. Ho fatto la doccia e ho passato sul tuo corpo una salvietta intrisa di acqua. La mattina quando mi sono svegliata, dormivi ancora, silenziosamente, accoccolato sulla salvietta ancora umida. Ho acceso il computer e mi sono messa a lavorare.

15 agosto Ti ho promesso che presto verrà la pioggia; e che questo inverno ci sarà molta neve, nella quale potremo camminare in leggerezza e felicità. Nel pomeriggio sei rimasto a guardarmi mentre bagno il prato. Ho raccolto un fascio di lavanda: sulle mie mani, sul tuo corpo e in tutta la stanza resta a lungo un commuovente sentore di fiore.

8 Settembre Da due giorni stai prendendo le medicine che ti hanno prescritto. Abbiamo rinunciato ad arrivare al prato e non si allontaniamo da casa. La sera apprendiamo dalla radio che in qualche parte del cielo volano bombardieri di guerra; che in qualche parte della terra bruciano case, persone e bandiere e che in qualche parte del mare affondano in naufragio piroscafi e barchini. “Siamo un popolo di bastardi” – ho pensato. 

11 settembre Sei guarito; per festeggiare siamo andati dal panettiere a comprare un dolce. Tornando però sei inciampato, credo, o forse, per un istante, hai perso conoscenza.  Ho cercato di sorreggerti e arrancando siamo tornati a casa. Non hai toccato cibo.

12 settembre Oggi hai mangiato.

18 settembre Ieri non hai toccato cibo e oggi fatichi anche a bere. Stasera non ti sei alzato, e non siamo riusciti nemmeno ad arrivare in giardino. Siamo seduti uno accosto all’altra, e la tua testa è posata in abbandono sul mio grembo. Verso le cinque del mattino, la radio ha interrotto le trasmissioni. Siamo rimasti vicini immobili seduti a terra; la tua testa su di me ha il peso della terra quando il mondo era giovane.  Alle otto e mezza del mattino è arrivata una macchina da soccorso. Sei riuscito al alzarti e hai seguito le persone venute a prenderti.

19 settembre La clinica ha telefonato per chiedermi se volevo passare a ritirare le tue poche cose, e i documenti. Ho risposto di no e ho ringraziato. Dopo settantadue ore, è venuta la pioggia, e forse ancora non ha smesso di cadere.

U. aveva dieci anni. Ne ha passati sei nel canile Enpa Cascina Quadrifoglio San Genesio, dove, ora, gli hanno dedicato uno spazio.

4 commenti:

  1. Grazie Annalisa, per la tenerezza senza sovrastrutture. Roger

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  2. Il ricordo affettuoso e commovente di un amico che se ne è andato dalla vita con la semplicità che gli esseri umani non hanno

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